Mario Fresa – Inediti da “La messa in piega del mondo”

*

Ma dico io perché. Siamo rimasti senza felicità di prosa.
E se ne va, sollevandosi dai piatti che se ne stanno
lì a contare, a grondaie. Chissà chi lo comanda: se le sue gambe
o l’alfabeto destino.

Il freddo siede allora, e si fa carne. Così ci metterei la firma.
Tira balbuzie con le sue mani, aprendo a perfezione il cane
dell’orecchio, il suo essere
cantilena o meglio Maggiordomo da sette giorni;
o una polvere liscia di parole dominanti, col suo modo
di parlare un po’ bestemmia un po’ sorriso di una certa
malignità; una coda, diciamo, perfetta
di giornata. Non so se mi spiego.

*


Il bello è che tutto si fece pieno di un freddo ammiraglio,
restandoci ben presto secco, da formica solitaria.
Guardò me, prima di fare il lupo lontanissimo
che appare in qualche foro di karma; per farlo diventare un fratello
scomparso, come si dice; annata più, annata meno.

Al confronto, il bambino è abituato.
Le spalle del treno gli dicono di fare un po’
di nebbia che odora: si mette la luce addosso
e preme la sua cuffia di nudità.
Diventa Vienna di cera, quasi premuta infanzia
senza nemmeno sapere come si fa – così ci crede, almeno.
Pare uno scatto d’ansia messo a riserva sul davanzale;
si piega con tanto di ultimatum, e scende dalla bocca
fino al segno di un dolore gentile.
Lo decifra scivolando: e siede lì, biondo, da lupo infetto;
ricade ginocchioni. Alla fine si allena,
fa un nido d’occasione. E non ti merita più.

*


Facciamo il nuotatore con le stesse parole di prima.
Ma è pur vero che forse, doveva capirlo prima lei,
con una malattia che non è niente male.
Anche il dottore fa il lupo dei biscotti.
Preme trappole, infatti; e pesta più risposte che soluzioni.
Se almeno servisse, l’elastico del male.
Invece ha qualcosa di buono, di quasi assente.
Le confesso, in una sola volta, che il medico
seziona mamma in un dolore anonimo.
Così almeno nessuno parla, o si ricorda per intero
la narcotica vicenda.

Beve a strappi, allora, e si aspetta fino a
rendere pace al pomeriggio lento, possessivo.

Fece la conta d’ansia. Mio padre iniziò a piovere
con le sue mani.

*


Morire di profilo

Ti dipingerei una gola senza fissa dimora, una piccina valanga senza il solito Winkel che ti dà noia, più che altro, per fare il tuo compare notturno o peggio; uno che prima smacchia e poi sparisce. Ma io sono arrivato prima di te. La trovate sempre in ordine, perciò, perché le cinque bambine si beccano per un granello e sanno andare ben oltre; ci sono insomma i fratelli e le sorelle. Infatti mio padre comanda lui, perché è tornato dalla cooperativa e si è mangiato il suo padrone. Quando è arrivato in fabbrica, però, ci ha raccontato di averne trovati solo quattro. E un giorno, mentre mangiavano, è saltato tutto fuori: anche mia madre, allora, dopo aver visto il corpo del padrone, piangeva sulle spalle del Lunedì successivo, perché credeva che io morissi.

Il padrone era di stoffa : in alto era sottile, e sotto rideva sempre, a causa dell’aria viziata della sua famiglia. Papà dice che ha un uomo che gli cura le bestie; e io gli ho detto di sì. Prima di diventare un piatto prelibato, il padrone mi fece pic sopra la guancia.

Allora i due rimasti ci dissero; ricerchiamo le qualità di un bravo padrone di famiglia: lungo, argenteo, squamoso, lucente, freddo, vorace, eccetera.
A questo punto, gli hanno buttato addosso l’acqua bollente; se lo osservate bene, dico a Benedetta, vi troverete qualche goccia di sangue, anche se l’animale è morto. A me rincresce tanto, perché mi dava i soldi da mettere nel mio salvadanaio! Ma il padrone non sapeva far altro che giurare, senza mai mantenere la parola. Sparava in modo ritmico, non essendo cieco; stava attaccato alle reti delle sue penne, a scatti. Saltava per un piccolo rumore di balbuzie.

Sicché ondulava, stipato nella carne; amava piangere e anche questo gli fu concesso. La testa diventata un’algebra vorace, orrenda. Poteva farlo meglio: schiacciarlo sino a farlo respirare.

Eppure chi può dirlo perché non si riesce a finirla, davvero, come vorremmo noi?

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Una collega viva

1.


A me questo non succede. Lei si nutre
di sedie che sono più tarantole che logiche
preoccupazioni: e per essere comoda, allora, aggiungo.
Farò un gesto minotauro d’impazienza e poi vedremo.
Si disegnano, insieme, dei collari che ci salvano,
magari, dalla vita.
Macché, le dico io. Se c’è
qualcuno che si fa tutto ospedale, caserma
di penne squattrinate, non posso che essere io,
da pittore a nient’altro. E infatti. Pure la mamma si attacca
al tram delle preghiere. E non volevate
spingere a fare di tutto questo, un quadrato di scampi?
È uno scherzo da topi, si direbbe; queste mirabili
creature da musica di pesce. Però chiarisco. Io non sono
nemmeno Cinese o proletario, ma voto bene:
spero ogni volta in un colpo di sfortuna.

2.


Sembra tedesca o troppo bianca e muove uno sciamano
desiderio, coi nervi bene in vista sui ginocchi.
Emette un punto zero di triste respiro nulla.

S’ingoia appena qualche proverbio
ed è convinto di essere un po’ vivo. Altro che umanità.

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Mario Fresa è nato a Salerno il 10 luglio 1973. Sue poesie sono state pubblicate sulle riviste «Paragone», «il verri», «Nuovi Argomenti», «Caffè Michelangiolo», «Almanacco dello Specchio», «Recours au Poème», «Nazione Indiana», «La Revue des Archers». È presente in varie antologie pubblicate sia in Italia sia all’estero, da Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004) a Veintidós poetas para un nuevo milenio (in «Zibaldone. Estudios italianos»; Università di Valencia, 2017). Collabora come critico a «Gradiva» (di cui è redattore), «Carteggi Letterari» e «Poesia».
Tra i suoi ultimi libri: Uno stupore quieto (Stampa2009, con prefazione di Maurizio Cucchi, 2012; menzione speciale al Premio Internazionale di Letteratura Città di Como); Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con opere visive di Mattia Caruso, 2015); Svenimenti a distanza (Il Melangolo, 2018, con una riflessione critica di Eugenio Lucrezi; Premio Internazionale Cumani Quasimodo).

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Grazie a François Nédel Atèrre per la cura

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