Fatti in là
Ricavo un antro nello specchio
prima del letargo inappellabile,
come tutti del resto in questo tratto
che sempre più approssima a brutto muso
la sagoma delle arcate dentali
e più vicino è, rifletto
al confine delle date, ai santi apostrofi
del pensiero perso, ai licheni e alla cenere
che li apprende, proprio mentre l’atmosfera
incarna un nuovo scompartimento di ferie.
Molti lì dentro si stringeranno all’onda,
altri alla medica e alla stella, qualcuno cadrà
nell’incontinenza dei germi
e forse solo cento faranno posto ai seguenti venti.
Ma ti ricordo come eravamo: lungimiranti
fino al naso, più in là brevilinei, volitivi
dalla sera in poi, con la lingua che faceva spazio
ad altri mondi che si dicono
agli intimi; e qui e adesso
non ne rispettiamo il metro.
*
Le due sul molo
Magari il porto turistico è un bel posto
per barcamenarsi. Magari lì non costa.
Ed è noto il calmiere dell’onda
diffuso dalla sua altezza quando si avventa
e i natanti ne tengono conto
e sembrano piastrelle smosse
ai piedi del promontorio.
Sono le due. Si direbbe oltretutto
che qui stiamo ad aspettare un treno.
Quelli così veloci da portarti qui
prima che io ti veda. Se non ci fosse
la pacatezza del pomeriggio, che cala
l’amo nella sera e abbocca il fresco
con l’argento alle calcagna, come
insabbiare la paura di perderci?
Era la tua mano un sollievo e scoperta
riva nella mia mano. La stessa mano
in apnea nel sudore adesso, tra millemila
esempi che a memoria si muovono.
Parlano di fare mente locale nella marea.
*
Con tutta la forza che ci fonda
La distanza tra l’ape e me è abissale
già a salve. La saluto ora che si perde,
e direi che avanzo nel soliloquio.
Ma la distanza non è nelle ali che ci misurano
nei salti. Talvolta in alto. Come copula dell’aereo.
Salta agli occhi questo divario inumano, certo,
ma insufficiente a tenerci lontani.
Insetto meno di me, ha ragione dell’impero
del vento, poco attore ma tanta scena.
E non è ancora abbastanza. Cosa manca allora?
Sono convinto che la distanza
stia tutta nella cura maniacale di diffondere
i petali, possederne l’alfabeto e imbrattarsi
dei contenuti: l’ape coltiva il linguaggio efficiente,
invece io – e con me il potere, l’epica e i sentimenti –
trovo comprensibile un linguaggio solo
nell’aria viziata.
All’aperto mi colloco tra i semi incoscienti.
Coltivo la loro stravaganza: quella nettezza,
quella diversità di infilarsi nella terra
in altre parole.