Spostamenti #2 – Andrea Zanzotto

SPOSTAMENTI
Rubrica di poesie, parole sulle poesie e parole sulle parole

A cura di Giovanna Frene

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Questa poesia è tratta da Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, Oscar Mondadori 2011, pp. 845-846. Ringrazio Giovanni Zanzotto per la concessione a riprodurne il testo. Questo commento è stato scritto nel giugno 2020, nell’ambito del progetto “Nuovo Commento”, curato da Cecilia Bello Minciacchi, Stefano Colangelo, Ivan Schiavone, Pierpaolo Cipitelli; il video è stato pubblicato in YouTube come “Nuovo Commento #7“. Ringrazio ancora Stefano Dal Bianco per il confronto avuto riguardo alla metrica, impervia, di questo testo.

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Commento alla poesia Sere del dì di festa. 1

Dopo la crisi poetico-esistenziale rappresentata da Meteo (dove la frammentazione metrico-tematica a cui mondo e soggetto erano sottoposti non sembrava poter trattenere la caduta del paesaggio e dei suoi consanguinei Mani), la prima delle Sere del dì di festa che apre la seconda sezione di Sovrimpressioni, ci porta subito in un libro che crea con il successivo Conglomerati un dittico che chiude il cerchio dell’opera poetica di Zanzotto, nel senso che si tratta di un ritorno alle proprie origini e motivazioni poetiche, come in una sorta di vaglio finale. In questo senso, il titolo del libro sta a indicare che in esso si “sovrascrivono” varie dimensioni polarizzate e opposte: il presente e il passato, la pura biografia e i tópoi letterari, il paesaggio e la storia, creando quella dimensione metapoetica, anche interna, tipica dell’ultimissima poesia di Zanzotto. Così, mentre la prima sezione di Sovrimpressioni si apre con la verifica del tema del paesaggio e dei suoi relativi numi, la seconda sezione, quella che contiene le 5 poesie delle Sere del dì di festa, affronta di petto il tema della coscienza poetica, cioè delle ragioni che hanno mosso e muovono il poeta alla scrittura, in rapporto al proprio sé e al mondo; ma benché questo tema sia suggerito dal titolo che declina al plurale quello del famoso componimento di Leopardi (La sera del dì di festa), in questa prima poesia la dimensione della rimembranza assume invece il volto del nume della fanciullezza poetica di Zanzotto, ossia Hölderlin, che così nella personale mitografia di Zanzotto viene ad ascriversi alla categoria sia degli dèi e che dei Mani, esattamente come gli elementi naturali. E che Leopardi, inteso come fenomeno, sia qui funzione di Hölderlin, inteso come nuomeno, lo dimostra l’epifania (“Questo dì fu solenne”) del testo leopardiano, che indirizza all’epifania d’impronta tipicamente hölderliniana di questa poesia di Zanzotto, e che come vedremo si tratterà nientemeno che dell’epifania degli dèi. In sostanza, in questa poesia Leopardi si sovrascrive su Hölderlin che si sovrascrive su Zanzotto giovane: ne risulta un’immagine con tre forme indissolubili.

Il testo è composto da 39 versi, raggruppati in cinque strofe, in una struttura che si può rappresentare nello schema di blocchi testuali 1+2+2 (esattamente come la sezione di cinque testi); la prima strofa, più breve e posta tra parentesi, è singola, e fa da introduzione in realtà anche a tutte le cinque poesie della sezione delle Sere, mentre la seconda e terza strofa formano una coppia, come anche la terza e la quarta: a garanzia di ciò, prima ancora del contenuto, è al forma a suggerirlo (seconda e terza strofa sono un blocco testuale scalare, con un gradino netto che sottolinea l’andamento sintattico; la quarta e la quinta invece sono a gradoni consecutivi discendenti). È assente la normale punteggiatura; c’è solo talvolta l’uso pausativo della virgola, quello enumerativo stretto della barra obliqua, l’uso separativo del trattino lungo, e l’uso agglomerante del trattino breve; c’è infine solo un due punti.

La prima strofa si compone di cinque versi, la cui metrica dà indicazioni precise sulle irregolarità ritmiche dell’intero testo: nell’ordine, un endecasillabo + un quadrisillabo, un endecasillabo, un doppio settenario, un endecasillabo e un novenario, nel verso spostato a destra; saranno queste strutture (decasillabo o endecasillabo + aggiunta finale, e versi doppi o tripli) a caratterizzare circa la metà dei versi del testo, 18 su 39, creando quei rallentamenti, spasmi, sbalzi che vanno compiutamente a descrivere quella che è la condizione del respiro, prima ancora della parola, di chi sta vivendo un’estasi epifanica. Sarà invece a livello fonico, e poi retorico, che il tessuto poetico viene ricompattato, come accade spesso in Zanzotto: oltre alle rime, assonanze e consonanze, la fitta serie di allitterazioni, di suoni ribattuti, rendono tutta la poesia un testo fortemente coeso. Tornando alla prima strofa, la parentesi la pone anche come soglia, come metatesto, tra il titolo leopardiano e il mondo hölderliniano che appare nella poesia, facendo quindi un’operazione speculare all’ambientazione temporale del testo, che è il 31 gennaio, essendo gennaio il mese del dio bifronte, Giano: dal “puro autosufficiente luogo letterario” che è il testo vivo della poesia leopardiana, con il suo portato epifanico, parte poi il climax (fatto di alternanza di anadiplosi e figure etimologiche, e sommamente rinforzato dall’anafora di “E’ un puro/E’ una purezza/E’ un avallo/E’ dèi”), climax che porta dritto al luogo poetico hölderliniano degli dèi in perenne fuga e in perenne ritorno, luogo che è anche un ritorno a casa e un ritorno all’infanzia, cioè all’età nella quale i poeti si votano agli dèi.

Ora, per Hölderlin la natura si presenta come una divinità molteplice, e le stesse divinità mitiche sono riferibili a precise entità naturali, ma siccome nella modernità gli dèi si sono dileguati, tocca al poeta evocare il loro ritorno nello spazio della natura, in quanto luogo di manifestazione del divino. È qui l’anafora del verbo essere a confermare che quella che seguirà infatti nel testo della poesia è una vera epifania. Ma il lutto per la scomparsa degli dèi fa sì che la sfera di azione del poeta sarà un colloquio notturno con le forze ctonie, laddove il divino si può solo intuire, allo stesso modo in cui esso è intuibile nei megatempi della natura, così paurosamente grande nel suo eterno ritorno e nelle sue leggi cicliche. Non a caso gennaio è, per stessa definizione di Zanzotto, non un luogo delle cose morte, ma il luogo per eccellenza di un ultra tempo.

Questo spiega perché in apertura alla seconda strofa ci sia l’inquadramento notturno, e nella notte più fredda dell’anno: “Tutti gli dèi del trentuno gennaio / si sono qui in un attimo affollati / qui nelle estreme / luci, strascichi, forze del trentuno gennaio”. “Dèi” e “trentuno gennaio” sono i termini che saranno ripetuti poi come un mantra per tutta la poesia, quasi sempre a inizio strofa, come se il qui e ora e il chi fossero parti di una formula magica di evocazione che il poeta ripete e ripete (e addirittura all’inizio della terza strofa il poeta apostrofa gli dèi: “A tutti gli dèi del trentun di questo trentuno”), fino alla finale epifania del “TUTTO SI APRE A SBARAGLIO” nell’ultima strofa. Prima si diceva che la seconda strofa ha una struttura scalare, perché in mancanza di punteggiatura, la sintassi viene sottolineata dalla presenza di un gradino che sposta a destra il secondo blocco di versi: all’asserzione che gli dèi del trentuno gennaio si sono resi presenti nel qui e ora di questo trentuno gennaio, con le sue “estreme / luci, strascichi, forze” (questo è il primo di tutta una serie di accumuli asindetici di elementi lessicali o sintagmatici presente nella poesia), segue la puntualizzazione che a quest’incontro epifanico ci sono i poeti (“Noi non-dèi”), ma anche “ciò che è ostile agli dèi”, cioè il mondo contemporaneo e la sua degenerazione. In questa epifania, in questo logos veniente, ai poeti spetta intagliarsi secondo il modello proposto dagli dèi nei loro “diktat leggi ed eserciti /di beltà”, ossia conformare sé stessi all’essenza della produzione poetica, che “trae doni” proprio nel narrare l’impossibile a narrarsi che è l’apparizione del divino nei luoghi, anche letterari, come suggerisce il binomio leopardiano “sera-festa”. Il termine “beltà” rimanda, oltre che all’arte poetica in sé, anche al cuore dell’opera di Zanzotto, ed è interessante notare anche qui un altro accumulo di sintagmi definitori. In ultima istanza, questo blocco in rientrare aperto dal termine “beltà” parla della creazione poetica nella sua intima struttura atemporale, ma anche nella sua fenomenologia di questo momento, in cui il poeta stesso sta scrivendo.

La stessa struttura scalare ritorna nella terza strofa, e anche qui all’inizio si dice, come prima, “A tutti gli dei del trentun di questo trentuno”, cioè gli dèi del trentuno gennaio si sono resi presenti nel qui e ora di questo trentuno gennaio; ma la differenza è che qui il poeta si rivolge addirittura agli dèi in persona, li apostrofa, quasi a imporne la presentificazione tramite la poesia: e infatti è solo così che qui e ora che “alligna”, cioè mette radici, attecchisce, il loro “gesto unanime / da essi inseparabile”, ossia la fondazione della stessa realtà, nei suoi elementi naturali eterni, come si legge in “scatti/scarti/fronti / assestamenti in monti”, con relativo disegnetto dei monti, a lato. Questo gesto fondativo degli dèi fonda un’eternità che è insieme geologica, come di movimento di faglia (“a shock a sbalzi, peso nitido”), e poetica (“brama / lustro e violenza del trentun gennaio”), i due, natura e poesia, ancora una volta collegati in senso bidirezionale. Il tutto con la “violenza” della presentificazione di entità (dèi e megatempo geologico) che trascendono la natura umana.

Ne deriva che nella sequenza della prima coppia di strofe si ha dapprima l’evocazione degli dèi da parte del poeta, poi la loro apparizione e poi la loro creazione della realtà, il cui tempo trascende qualsiasi misura umana, tranne quello della poesia, il cui tempo è sussunto nel megatempo della natura in quanto è nella poesia che la natura viene fondata, proprio per la sua capacità di evocazione degli dèi.

A questo punto, nella quarta strofa, entra in scena il poeta con il suo “io” di poeta, nel suo qui e ora, come recita il primo verso “Dall’apice del trentun, di gennaio” e fa irruzione proprio in questa “festa-sera”, già connotata come luogo epifanico e letterario insieme; egli appare come novello Orfeo ucciso e smembrato dalle Menadi, come si vede nel verso “mi lascio vendere, macellare, distribuire”. Qui l’elemento apollineo e dionisiaco convergono: il poeta-Orfeo è figura apollinea perché è figlio del dio Apollo, che ne protegge le spoglie, quindi qui è benefattore del genere umano, promotore delle arti umane e maestro di cerimonie religiose; ma è anche figura dionisiaca, che gode di un rapporto privilegiato con la natura e il suo eterno ritorno; e inoltre come Orfeo è colui che tenta con il suo canto il riscatto di Euridice-realtà. A livello stilistico, in questa strofa si ritorna alla nitidezza delle anafore della prima strofa: tre versi iniziano con “mi lascio”, seguiti dalle azioni che il poeta subisce, espresse tutte in maniera asindetica marcata dall’uso della virgola, e con i verbi all’infinito, con gli elementi enumerati a serie di tre: la prima sequenza, “vendere, macellare, distribuire”, che denota la coincidenza metonimica del corpo del poeta con la sua poesia; la seconda sequenza, “glorioso, scaltro, rinascere” (con variatio due aggettivi+verbo), che denota la sua sussunzione al ciclo della natura; la terza sequenza (con variatio tre avverbi, con omeoteleuto, seguiti da tre verbi) “singolmente, ciecamente, altrimenti, / deflettere, ripensare, ritrattare”, che indicano il destino della sua singola opera poetica nel mondo. In definitiva, è in questa strofa che l’epifania degli dèi va a innescare il rivelarsi del poeta e della sua poesia al mondo, per il margine di tempo che gli è concesso di vivere nel tempo. L’apice di cui si parla all’inizio della strofa è quindi sia l’apice del momento epifanico, ma anche l’apice della creazione poetica.

A questo punto, al culmine dell’epifania, crolla però il palco. Il maiuscolo perentorio che apre la quinta e ultima strofa fa capire che tutto, nel suo acme, sta per finire, come è tipico delle epifanie, che sono momentanee: “TUTTO SI APRE A SBARAGLIO” lo indica, dove sbaraglio sta letteralmente per “Disfatta militare di proporzioni notevoli e per lo più irreparabile”. Nella dialettica dell’epifania e della ricreazione del mondo (“Luci-lotte”), alla percezione umana a un certo punto si frappongono, tra poeta e dèi, delle “rupi di glacialità” che sono autosussistenti e invalicabili (l’equivalente della siepe leopardiana). Prima che tutta questa ascesi epifanica sia finita, però, e con esso anche lo scrivere, prima che ritorni la piccolezza dell’essere uomini, vi è un’acme di esaltazione interiore ossimorica (la “stasi-tregua” della “voluttà epifanica ” è insieme “dolcissima” e “durissima”), cioè vi è il momento massimo di esperienza della sacralità del mondo. Dopo di che, è questa stessa esperienza puntale, momentanea, che è “emargianante”, sia perché il centro trascendente è perduto, sia perché anche gli dèi si sono ritirati, come dice quel “è margine con noi”, e il tutto culmina, ma in basso, nella ricaduta dentro la dimensione pienamente umana espressa nel gioco fonico-paronomastico “marginali non magnanimi distimici tipi”, tipi che pure per poco hanno parte alla divinità (“soffiati in infilate nivali di fati”). In sintesi: fuggono via di nuovo gli dèi (“corri corri”), fugge l’ispirazione poetica, il poeta ricade nella realtà. La poesia, qui scritta, è però portata a termine.

Per concludere, la prima delle Sere del dì di festa si presenta, in ultima analisi, come un testo di fenomenologia della scrittura poetica in rapporto all’apparire di una trascendenza, nelle sue fasi di intuizione, scrittura, ricaduta nel mondo.

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SPOSTAMENTI
Rubrica di poesie, parole sulle poesie e parole sulle parole

Questa rubrica di poesie, Spostamenti, nasce dalla necessità prima di tutto di dare voce al testo poetico mediante un commento, inteso questo come pratica di lettura e rilettura lenta, necessarie per cogliere quei meccanismi del testo che spesso la lettura veloce che il web suggerisce occulta. Per certi versi, la pratica del commento tanto somiglia a quella che, nell’ornatus, è la caratteristica dei tropi: si tratta di compiere uno spostamento, una sostituzione, un cambiamento di direzione che investe un elemento originario, e che nel nuovo elemento che sorge altrove rivive in una veste traslata. La pratica del commento, infine, richiede un servizio umile e gratuito al testo poetico.

La rubrica avrà inoltre uno spazio dedicato alle “parole sulle poesie”, ossia alla recensione di libri di poesia e di libri sulla poesia, ma anche a testi che verranno ritenuti utili per quel che concerne la dimensione del fare poetico. In quanto a ciò che viene designato con “parole sulle parole”, si intende dare spazio all’ambito saggistico, ma anche a interventi di poetica e a interviste, con apertura a tutti coloro che desiderino dare il loro contributo.

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