Andrea Castrovinci – Poesie

a cura di Pietro Romano

*

Il tuo abbandono, un altro volo oscuro
senza schianto, precipitare buio
lungo tremiti,
rannicchiarsi fetalmente al pianto.
Lasciarsi inghiottire nuovamente
dal desiderio virulento
che sogghigna “molla”, mentre
tutto intorno non ha pace, è lucido e confuso
slabbrato dal suo senso,
dal senso che tu avevi dato.


Perché ridarmi, tu, questa asfissia di senso,
l’indistinzione tra io e mondo, il sole
a riscaldare guance di inappartenenza
a me io corpo
(o questo vuoto secondo è un incubo:
sì gioia, sì, mi sveglierai
perché tu sei, non come chi manca,
sei,
e tu, come accartocci la parola
ad essa darai langue, e poi parole,
restituirai a me stesso me)
perché
l’evanescenza lutulenta dell’assenza rechi,
come rigagnolo inquinato
nero insozza una discesa?
Svegliami Amore, svegliami dal nuovo buio

*

Le eterne 08: e qualcosina.
Richiami, risposte nella stessa lingua,
sempre compresa, cinguettinare
e cicalsco gracidìo
pattern su cui innestare rare
sempre uguali variazioni: questo
(straziante tremare di foglie) l’eterno sfondo
e un’infinita vastità di piccolissimi
particolari: non basterebbe una esistenza sola.
Dove smarrito e cos’era l’amore,
voi, nell’azzurro silenzio dei monti
a quale tenue oscillazione
in che minimo segno
(come l’aurora, i cinguettìi, le otto e qualcosina, tutto)
immerso nel brivido del sempre
risorgerete?
E perchè mai sempre “perdona”,
vi ridirei, “se di te un niente mi emoziona”?

*

Ma prima o poi mia gioia
farai anche tu i conti col vuoto,
o sarai tu, delirio per chi resta, il nulla.
Ciascuno fa i conti col suo nulla.
Ora che vagolo in lontane arie
riaffiorano esaurite fuor dal polline sonoro
come credo nelle tue emicranie
slabbrandosi da sé queste parole:
nulla ti giunge o ti convince e allora,
Amore, a che sei valso, ad esaurire
ulteriormente un cuore
in assedio da trent’anni?

*

Sbiadendosi dal senso come quando
ripeti una parola ad alta voce:
così mi disidrati ciò che vedo e penso
non hanno sponde corpo e mente, gocciolano
verso un gran lago d’ombra, un’altra assenza.

*

Tua nuova assenza è questa dimensione
in cui si sfuocano parole note
e l’aderenza con le cose
manca,
come le rose prive dell’essenza.
La nebbia allora, che scialba allontana
è amica docile, senza pretese;
ammorbidisce colpe, attese, chiama
per nome: Andrea stai calmo,
ancora tutto si dissolve, muta
non
muore.

*

25/3/2020


Piove, è mercoledì, sto in quarantena,
che posso fare? È vero! È il venticinque
marzo duemilaventi, a Partinico
piove da ore… È vero! Lo ridico,
controllerete poi le previsioni;
il primo verso è noto? Eh furbacchioni!
Lo so, cazzeggio un po’, facendo versi
ai versi altrui: non sono originale
lo so, non faccio ridere né piangere,
abbiate pena, è tutto un po’ un rimpiangere,
per ora, il tempo che scorreva allegramente…
tenersi mano nella mano, immersi
nel vento, e poi sedersi su panchine
fredde, guardare il mare, le colline,
dirsi e ridirsi le cose carine
un po’ così… cretinissimamente.
Ma che volete dai poeti, il male
è intorno a tutti, e sì, sarò brutale:
non li cercate mai, cosa volete
adesso dai poeti!? Mah, vedete,
anche per noi è difficile non dire
banalità, tipo andrà tutto bene,
che pretendete… non saprei che dire.
Li lascio a voi i per carità, son piene,
certo, le terapie intensive, ma
ci riprenderemo, andrà tutto bene
e riapriremo quelle attività

[con settemilacinquecentotré
(ad oggi) morti in più]… quel che sarà!
La pandemia? Non sono infetto, tié!

(segue gestaccio a ombrello scaramantico,
gesto sodale al giovine romantico
amante tutte le cretinità)

Ma allora meglio ridirsi la pena
miserrima che tormentava ogni ora?
Sia mal d’amore, o morte, ancora e ancora?
forse sì, forse no… tutto oggi è pena.

Sono le sette, è presto per la cena
sto in quarantena ormai da molti giorni,
e sono triste perché non ritorni…
ma tu non puoi tornare, c’è il decreto
che vieta spostamenti. E nonostante
questo, sei tu che a me non vuoi tornare.
Non sazia mi frastorni
allora coi ricordi del consueto
restare antico in casa a non far niente;
ma era con te, e lo era dolcemente…
E non la voglio, credi, ma la pena
(guarda, qua azzardo un ritmo a cantilena)
che provo se ripassa una sirena
amara che va verso l’ospedale
è grande… e questa pioggia, uguale uguale
fin dal primo mattino mi esacerba…
non so se piangere o restare,
così, come le cose, come l’erba
che lenta cresce, senza mai pensare,
vivendo in sospensione, in compromesso
tra l’essere e il non essere: restare.

Lo so, direte, ‘sta poesia fa pena.
E “pena” è ripetuto già sei volte!
Non c’è ironia né vera serietà,
poi questo modo di trattare il tema
è squallido. Chissà che aveva in mente.

Credo che forse non avessi niente:
che avete anzi ragione, queste rime
questa cercata musicalità
stride, è quasi scherno, e non la rende
la sospensione,
la costrizione di restare in casa
nell’angustia dell’invisibile;
che forse squallido è questo comune
comunitarizzarsi per la noia,
mentre fuori si contano i morti
e in altre case si fa i conti col vuoto;
squallida è questa fratellanza
al nostro smisurato egoismo.
Che dire dunque, infine? Io non saprei.
Adesso sento che si debba attendere
che il male dentro cresca; nel frattempo
guardare ore e ore di niente, come i gatti, alla finestra.

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