a cura di Giovanna Frene
traduzioni di Gordiano Lupi
Nicolás Guillén nasce a Camagüey il 10 luglio del 1902. Dopo il trionfo della Rivoluzione diventa il Poeta Nazionale cubano. Fin dai suoi primi libri il suo punto di vista è collettivo, senza indugiare in astrazioni e fughe, e per questo il suo linguaggio si caratterizza per essere volutamente di facile comprensione. Il suo primo libro è Cerebro y corazón (1922), cui seguono Motivos de son e Ideales de una raza (1930), importanti perché “si tratta di poesia che molti hanno giustamente definito mulatta, perché si appoggia ai due elementi predominanti della cultura nera: il ritmo e il colore. Le liriche di Guillén nascono dalla guaracha cubana e sono soprattutto parole scritte per canzoni popolari”. Si iscrive nel frattempo al Partito Comunista Cubano. In Sóngoro cosongo (1931) affronta ancora il tema del nero, ma tralasciando la caricatura dei vecchi personaggi, per sperimentare una poesia più descrittiva e realistica. Il primo vero poema sociale è West Indies Ltd. (1934), che dimostra un impegno politico sempre maggiore. Pubblica in Messico, nel 1937, una delle sue opere più importanti, Cantos para soldados y sones para turistas, scritta da un comunista che sogna la ribellione del suo paese dall’oppressione; sempre in Messico pubblica España: poema en cuatro angustias y una esperanza, dedicato alla lotta del popolo spagnolo contro il fascismo. Nel 1947 pubblica in Argentina El son entero (1947), dove è presente tutta la sensibilità e la musicalità afrocubana. Nel 1953 è a Santiago del Cile per il Congresso della Cultura Latinoamericana, ma non potrà fare rientro a Cuba perché il dittatore Batista glielo impedirà. Nel 1955 l’Unione Sovietica gli conferisce il Premio Lenin per la Pace. Sempre in Argentina pubblica le poesie di questo periodo, raccolte nel libro La paloma de vuelo popular (1958); ma il libro politico per eccellenza rimane Elegías (1958). Il 1959 è l’anno della Rivoluzione Cubana, a seguito della quale Guillén viene nominato Presidente della Unione degli Scrittori e Artisti di Cuba fino al 1961. Pubblica ancora un libro di cronache giornalistiche, Prosa de prisa (1964), Poemas de amor e Tengo, libro scritto sotto l’influenza della vittoria rivoluzionaria. Nel 1967 esce El gran zoo, mentre nel 1972 pubblica El diario que a diario (versi e prosa), con cui riassume tutta la storia di Cuba fino al trionfo della Rivoluzione. Sempre del 1972 è il suo ultimo libro, La rueda dentada, “che dimostra la sensibilità artistica di Guillén, sia quando canta il Vietnam, la morte di Gagarin, Martin Luter King, sia quando chiama alla ribellione contro i padroni culturali stranieri”. Guillén muore nel 1989, al massimo della fama, non facendo in tempo a vedere la fine che aveva fatto il comunismo in cui aveva fervidamente creduto.
I versi che proponiamo sono tratti da Obra Poética 1922-1985. Tomo I 1922-1958 (Il Foglio, 2020).
da Cerebro y corazón (Cervello e cuore, 1922)
Blasone
Odio l’assurdo lume della Filosofia,
perché mai accende la sua luce un’illusione
ma misteriosa e grave, cerimoniosa e fredda,
cerca il perché e il come delle cose che sono.
Per vivere il sogno dell’esistenza mia
come solo compagno basta il cuore.
Perché soffrire schiavo d’una folle ombrosa,
d’una folle altera di nome Ragione?
Amo la limpidezza dell’etereo e dell’astratto.
Ripudio quel che è preciso ed esatto,
– che non si sbaglia, è definito e fatale… –
Per questo nelle mie ansie d’esser altro, vorrei
esser brusio di fontana, fremito di bandiera,
chimera scolpita sopra un sogno immortale.
Rima ingenua
Oggi incrociò indifferente la mia strada
quella che prima fu l’angel del mio amore
anche se passando non mi guardò neppure,
guardò in avanti subito dopo esser passata.
Non so se soffro o godo all’incontrarla,
se lei ancor m’ama, oppur se l’amo;
ma so che quando passa io la guardo,
proprio come passando lei guardò.
Parole fondamentali
Fa’ che la tua vita sia
campana che rintocchi
o solco in cui fiorisca e fruttifichi
l’albero luminoso dell’idea.
Alza la tua voce sulla voce senza nome
di tutti gli altri, e fa’ che si veda
accanto al poeta, l’uomo.
Colma il tuo spirito d’ardore;
cerca la più ripida vetta,
e se il sostegno nodoso del tuo bastone
incontra qualche ostacolo al tuo intento,
scuoti l’ala della baldanza
di fronte alla baldanza dell’ostacolo
da Otros poemas (Altre poesie, 1923)
Violetta
Non voglio la gloria.
La gloria è invidia, chimere, inganni e non tranquillità.
Io risparmierò alla storia
banale, la mia memoria.
Più che gli applausi – ingannevole scoria –
amo uno scettro augusto: la tranquillità.
Non voglio che il mondo mi coroni la fronte.
Io voglio esser fonte,
non voglio esser mare.
Non voglio esser condor che al cielo spinga il suo volo.
L’allodola non può volare fino al cielo,
però sa cantare.
Al margine dei miei libri di studio
I
Io, che pensavo a una bianca via fiorita,
dove nascondere la mia vita sotto azzurro sogno,
oggi malgrado l’innocenza di quel dorato impegno,
muoio studiando leggi per vivere la vita.
E invece di un’allegria di cantici e colori,
o della bianca via costellata di fiori,
aumentano le mie nostalgie solenni professori
e aule piene di alunni allegri e incolori.
Ma seguo le lezioni puntualmente.
Sprofondo nell’enfatica critica e nel dibattito profondo:
Savigny, Puchta, Ihering, Teofilo, Papiniano…
Così riempiono e coprono la vita che oggi vivo
la scienza complicata dell’Amministrativo
e il libro interminabile di Diritto Romano.
da Poemas de transición (Poesie di transizione, 1927-1931)
L’aeroplano
Quando passerà quest’epoca
e brucerà nelle fiamme dei secoli
tutta la nostra documentazione umana;
quando non esisterà più la chiave
del nostro progresso attuale,
e con la pazienza di chi non sa
l’uomo cercherà di ricominciare,
allora appariranno
sprazzi della nostra morta civiltà.
Cosa diranno i naturalisti del futuro
davanti a una carcassa d’aeroplano
riesumata in qualche pianura,
o nella vetta d’una montagna,
ossidata, fossilizzata,
monumentale, incomprensibile, strana?
Di sicuro in molti
si spaventeranno
e l’aeroplano classificheranno
tra gli esemplari d’una fauna estinta.
Futuro
Forse verranno altri uomini
(bianchi o neri, non fa differenza),
più possenti, più risoluti,
che per aria o sul mare
sbaraglieranno i nostri aeroplani
e c’imporranno la loro verità.
Vorrei vedere gli americani!
Proprio loro, che ci umiliano con la forza,
moderni inca, nuovi aztechi, cosa faranno?
Come i vecchi indios lavoreranno
nelle miniere per il nuovo spagnolo,
senza pershing, senza lindbergh
e persino senza new york,
mangiando sandwiches con i conquistatori
e facendoli salire sulle loro rolls-royce.
Viaggio interiore
Sto progettando un viaggio verso me stesso.
Là saluterò i miei vecchi amici,
stringerò mani remote,
riaprirò percorsi
abbandonati e calpesterò di nuovo sentieri solitari.
Sento di avere molte cose
nuove dentro il mio stesso oblio.
Tutto sarà diverso,
cambiato, sconosciuto.
Ma, quando verrò a cercarti
ti troverò come sempre:
morta tra i due, il volto steso a terra.
Morta, alla fine. Solamente morta.
da Motivos de son (Motivi di son, 1930)
Nero labbrone
Perché t’arrabbi tanto
quando ti chiamano nero labbrone,
se hai la bocca santa,
nero labbrone?
Labbrone così come
sei hai tutto;
Carità ti mantiene,
ti dà tutto.
Ti lamenti comunque, nero labbrone;
senza guai e con farina,
nero labbrone;
bianco vestito immacolato,
nero labbrone;
scarpe di due tonalità
nero labbrone…
Labbrone così come sei,
hai tutto.
Carità ti mantiene,
ti dà tutto.
Se tu sapessi…
Ah, nera
se tu sapessi!
Questa notte t’ho visto passare
e non volevo che mi vedessi.
Ben so che gli farai come a me,
che quando restai senza soldi
te ne andasti di bachata,
senza ricordarti di me.
Sóngoro cosongo,
sogo be;
sóngoro cosongo
di mamey;
sóngoro, la nera
balla bene;
sóngoro di uno
sóngoro di tre.
Alé,
vengano a vedé;
alé,
andiamo a vedé;
venite, sóngoro cosongo,
sóngoro cosongo di mamey!
da Songoro cosongo (1931)
Prologo
Prologo? Sì. Prologo…
Però niente di pesante, perché queste prime pagine devono essere fresche e verdi, come giovani rami.
Comunque, io preferisco mettere i prologhi alla fine, come se fossero epiloghi. E in ogni caso, lasciare gli epiloghi per i libri che non hanno prologo.
D’altra parte, un prologo scritto da altri sembra sempre una cosa provvisoria, come se fosse dato in prestito. Dopo aver stampato il libro, l’autore che ha scritto poche righe sull’amico deve vi- vere con l’angoscia che questi gliele chieda:
– Dice Menéndez che quando ha finito con il prologo, glielo mandi…
Forse per metterlo in un’altra opera, o per prestarlo a un amico.
Il mio prologo è soltanto mio.
Posso dire, quindi – chiarite le cose precedenti – che mi decido a pubblicare una raccolta di poesie perché le ho già scritte. In questo sono un po’ più bravo di certi autori che annunciano le loro opere senza aver redatto una sola riga. Quasi sempre tale annuncio compare nel primo libro, con un titolo elastico: “Opere in preparazione”. Segue un elenco che comprende diversi tomi di poesia, critica, teatro, romanzi… Un intero mondo di aspirazioni, ma con ali molto corte per volare. Non ignoro, certamente, che questi versi possa- no essere considerati ripugnanti da molte persone, perché trattano argomenti che parlano dei neri e del popolo. Non m’importa. O meglio: mi rallegra. Questo significa che spiriti così acuti non sono inclusi nelle mie tematiche liriche. In ogni caso si tratta di persone buone. Sono arrivati con fatica all’aristocrazia partendo dalla cucina, e tremano quando vedono un paiolo.
In definitiva devo dire che questi sono versi mulatti. Sono composti dagli stessi elementi che entrano a far parte della struttura etnica di Cuba, dove tutti siamo un po’ meticci. Tutto ciò disturba? Non credo. In ogni caso, va detta una cosa prima che ce ne dimentichiamo. L’influenza africana in questa terra è molto profonda, al punto che nella nostra idrografia sociale scorrono e s’incrociano così tante correnti capillari che sarebbe un lavoro da miniaturista sbrogliare il geroglifico.
Ritengo pertanto che una poesia creola a Cuba non lo sarebbe in modo completo se dimenticasse il nero. Il nero – a mio parere – contribuisce in maniera importante al nostro cocktail. E le due razze che sull’Isola affiorano sull’acqua, all’apparenza distanti, si tendono un gancio sottomarino come quei ponti profondi che unisco- no in segreto due continenti. Per questo motivo, lo spirito di Cuba è meticcio. E il nostro colore definitivo partirà dallo spirito per arrivare alla pelle. Un giorno si dirà: “color cubano”.
Queste poesie si prefiggono il compito di rendere più vicino quel giorno.
Arrivo
Qui siamo!
La parola ci viene umida dai boschi,
e un sole energico ci sorge tra le vene.
Il pugno è forte
e sostiene il remo.
Nell’occhio profondo dormono palme esorbitanti.
Il grido ci esce fuori come una goccia d’oro vergine.
Il nostro piede, duro e largo,
schiaccia la polvere nei sentieri abbandonati
e stretti per le nostre fila.
Sappiamo dove nascono le acque,
e le amiamo perché spinsero le nostre canoe sotto
i cieli rossi.
Il nostro canto
è come un muscolo sotto la pelle dell’anima,
il nostro semplice canto.
Rechiamo il futuro nella mattina,
il fuoco sopra la notte,
il coltello, come un duro pezzo di luna,
adatto per le pelli barbare;
portiamo i caimani nel fango,
l’arco che scaglia le nostre ansie,
la cintura del tropico
e lo spirito puro.
Rechiamo
i nostri connotati al profilo definitivo d’America.
Ehi, compagni, qui siamo!
La città ci attende con i suoi palazzi, tenui
come favi di api silvestri;
le sue strade sono secche come i fiori quando non piove
in montagna,
e le sue case ci guardano con gli occhi pavidi
dalle finestre.
Gli uomini antichi ci daranno latte e miele
e ci coroneranno di foglie verdi.
Ehi, compagni, qui siamo!
Sotto il sole
la nostra pelle sudata rifletterà i volti umidi
dei vinti,
e nella notte, mentre gli astri ardono nella punta
delle nostre fiamme.
La nostra risata sorgerà sopra i fiumi e gli uccelli.
Canto nero
Yambambó, yambambé!
replica il congo solongo,
replica il nero ben nero;
congo solongo del Songo
balla yambó sopra un piede.
Mamatomba,
serembe cuserembá.
Il nero canta e si sbornia,
il nero si sbornia e canta,
il nero canta e se ne va.
Acuememe serembó,
aé;
yambó,
aé.
Tamba, tamba, tamba, tamba, tamba
del nero che cade;
tomba del nero, caramba, caramba,
che il nero cade:
yamba, yambó, yambambé!
da West Indies, LTD (1934)
West Indies, LTD
I
West Indies! Noci di cocco, tabacco e acquavite…
Questo è un oscuro popolo sorridente,
conservatore e liberale,
allevatore e di zucchero coltivatore,
dove a volte corre molto denaro,
ma dove sempre si vive molto male.
Il sole arroventa qui tutte le cose,
dal cervello fino alle rose.
Sotto lo scintillante abito di lino
andiamo ancora con il perizoma;
gente semplice e tenera, discendente di schiavi
e di quella marmaglia incivile
di diversissima stirpe,
che nel nome di Spagna
cedette Colombo alle Indie con gesto gentile.
Qui ci sono bianchi, neri, cinesi e mulatti.
Certo, si tratta di colori a buon mercato,
perché tra patti e contratti
sono corse le tinte e non c’è un tono stabile.
(Chi pensa diverso faccia un passo avanti e parli.)
C’è qui tutto questo, ci sono partiti politici,
oratori che dicono: “In questi momenti critici…”.
Ci sono banche e banchieri,
legislatori e borsisti,
avvocati e giornalisti,
medici e portieri.
Che cosa ci può mancare?
E poi quel che ci manca lo manderemo a prendere.
West Indies! Noci di cocco, tabacco e acquavite.
Questo è un oscuro popolo sorridente.
Ah, terra insulare!
Ah, terra stretta!
Non è vero che sembra fatta
solo per metterci un palmeto?
Terra nella rotta dell’”Orinoco”,
o d’altra nave escursionista,
zeppa di gente senza un artista
e senza un folle;
porti dove chi ritorna da Tahiti,
dall’Afghanistan o da Seul,
viene a mangiarsi il cielo azzurro, innaffiandolo con Bacardí;
porti che parlano un inglese
che comincia in yes e termina in yes.
(inglese da Ciceroni da quattro soldi.)
West Indies! Noci di cocco, tabacco e acquavite.
Questo è un oscuro popolo sorridente.
Mi rido di te, nobile delle Antille,
scimmia che vai saltando di pianta in pianta,
pagliaccio che sudi per non mettere la zampa,
e sempre la metti fino alle ginocchia.
Mi rido di te, bianco dalle verdi vene
– ti si vedono bene anche se di occultarle procuri!
– mi rido di te perché parli di aristocrazie pure,
di zuccherifici floridi e casse piene.
Mi rido di te, nero imitamici,
che apri gli occhi davanti all’auto dei ricchi,
e che ti vergogni di guardarti la pelle scura,
quando hai il pugno così duro!
Mi rido di tutti: del poliziotto e dell’ubriaco,
del padre e del suo ragazzo,
del presidente e del pompiere.
Mi rido di tutti: mi rido del mondo intero.
Del mondo intero, che si emoziona di fronte a quattro villosi,
eretti molto soddisfatti dietro i loro vistosi scudi,
come quattro selvaggi ai piedi d’una piantagione di cocco.
II
Cinque minuti d’interruzione.
Il complesso di Juan il Barbiere
suona un son.
– Colonnelli di terracotta,
politici da leva e metti;
caffè con pane e burro…
Che continui il son!
La burocrazia è d’accordo
nell’offrirsi alla Nazione;
duecento dollari mensili…
Che continui il son!
Lo yankee ci darà denaro
per aggiustare la situazione;
la Patria è sopra ogni cosa…
Che continui il son!
I vecchi leader sorridono
e dopo parlano da un balcone.
La zafra! La zafra! La zafra!
Che continui il son!
III
Le canne – lunghe – tremano
di paura davanti al machete.
Brucia il sole e l’aria pesa.
Grida di capisquadra
schioccano secche e dure come fruste.
Dall’interno dell’oscura
massa di pezzenti che lavorano,
sgorga una voce che canta,
sboccia una voce che canta,
esce una voce piena di rabbia,
si alza una voce antica e di oggi,
moderna e barbara.
– Tagliare teste, come canne,
zac, zac, zac!
Bruciare le canne e le teste,
far salire il fumo fino alle nubi,
quando sarà, quando sarà!
Ecco il mio machete con la sua lama,
zac, zac, zac!
Ecco la mia mano con il suo machete,
zac, zac, zac!
E il caposquadra è con me,
zac, zac, zac!
Tagliare teste come canne,
bruciare le canne e le teste,
far salire il fumo fino alle nubi…
Quando sarà!
E la canzone elastica, nella sera
di zafra e agonia,
trema, risplende e brucia,
aderente al tetto concavo del giorno.
da Cantos para soldados y sones para turistas (Canti per soldati e suoni per turisti, 1937)
Soldato, impara a sparare
Soldato, impara a sparare:
tu non mi devi ferire,
che c’è molto da camminare.
In basso devi sparare,
se non mi vuoi ferire!
In basso io sono con te,
soldato amico.
In basso, gomito a gomito,
sopra il fango.
Dal basso, no,
che lì ci sono io.
Soldato, impara a sparare:
tu non mi devi ferire,
che c’è molto da camminare.
Soldati in Abissinia
Mussolini.
Avanza il pugno, la barba.
Avanza il tavolo, in croce, Africa
dissanguata.
Africa verdenera o biancazzurra,
di geografia e mappa.
Il dito, figlio di Cesare,
penetra il continente:
non parlano le acque di carta,
né i deserti di carta,
né le città di carta.
La mappa, fredda, di carta,
e il dito, figlio di Cesare,
con l’unghia insanguinata,
già confitta, sopra un’Abissinia di carta.
Che diavolo di pirata,
Mussolini,
con il volto così duro
e la mano così lunga!
L’Abissinia
s’increspa,
s’inarca,
grida,
s’infuria,
protesta.
Il Duce!
Soldati.
Guerra.
Navi.
Mussolini, in automobile,
fa il suo giro mattutino;
Mussolini, a cavallo,
nel suo esercizio vespertino;
Mussolini, in aereo,
da una città all’altra città.
Mussolini, pulito,
fresco,
lindo,
vertiginoso.
Mussolini, contento.
E serio.
Ah, ma i soldati
cadranno e inciamperanno!
I soldati
non faranno il loro viaggio su una mappa,
ma sul suolo d’Africa,
sotto il sole d’Africa.
Là non troveranno città di carta;
le città non saranno punti che parlano
con verdi vocettine topografiche:
formicai di pallottole,
tossire di mitragliatrici,
canneti di lance.
Allora, i soldati
(che non fecero il loro viaggio su una mappa),
i soldati,
lontani da Mussolini,
soli;
i soldati
si arroventeranno nel deserto,
e molto più piccoli, certamente,
i soldati,
dopo si asciugheranno lentamente al sole,
i soldati
trasformati
nell’escremento degli avvoltoi.
Canzone
Morto di fatica e sonno,
torna un soldato dal monte.
Labbro duro, dura grinta.
Com’è lontano l’orizzonte
dove il ferro lo distrugge
e il cavallo lo disarciona!
Più lontana è la bimba,
con la cintola mezza aperta,
che ormai niente potrà cingerla.
Soldato, soldato fai attenzione
– fuoco e sangue, polvere e rissa –,
è molto lontana la tua bimba,
perché la tua bimba è morta.
da ESPAŇA. Poemas en cuatro angustias y una esperanza (SPAGNA. Poemetto in quattro angosce e una speranza, 1937)
Seconda angoscia
Le tue vene, la radice dei nostri alberi
La radice del mio albero ritorta;
la radice del mio albero, del tuo albero,
di tutti i nostri alberi,
che beve sangue, umido sangue,
la radice del mio albero, del tuo albero.
Io la sento,
la radice del mio albero, del tuo albero,
di tutti i nostri alberi,
la sento
infissa nelle profondità della mia terra,
infissa lì, infissa,
che mi trascina, mi solleva, mi parla,
mi grida.
La radice del tuo albero, del mio albero.
Nella mia terra, infissa,
con chiodi di ferro,
di polvere, di pietra,
che fiorisce in lingue focose,
alimenta rami dove appendere gli uccelli stanchi,
innalza le sue vene, le nostre vene.
le tue vene, la radice dei nostri alberi.
Terza angoscia
E le mie ossa che marciano nei tuoi soldati
La morte va mascherata da frate.
Con la mia camicia tropico cinta,
appiccicosa di sudore, uccido il mio ballo,
e corro dietro alla morte per la tua vita.
I due tipi di sangue che in me si uniscono,
tornano a te, perché da te vennero,
e delle tue piaghe fulgide domandano.
Secchi vedrò gli uomini che ti ferirono.
Contro scettro e corona, mantello e spada,
popolo, contro sottana, e io con te,
e con la mia voce perché il petto ti parli.
Io, tuo amico, amico mio; io, tuo amico.
Nelle montagne grigie; per i sentieri
rossi; per i sentieri impervi,
la mia pelle, a strisce per farti bende,
e le mie ossa che marciano nei tuoi soldati.
da El son entero (Il son intero, 1947)
La mia patria è dolce dall’esterno…
La mia patria è dolce dall’esterno;
e molto amara dall’interno;
la mia patria è dolce dall’esterno;
con la sua verde primavera,
con la sua verde primavera,
e un sole di fiele nel centro.
Che cielo azzurro e silenzioso
guarda impassibile il tuo lutto!
Che cielo azzurro e silenzioso,
ah, Cuba, che Dio t’ha dato,
ah, Cuba, che Dio t’ha dato,
ed è così azzurro il tuo cielo!
Un uccello di legno
mi portò nel suo becco il canto;
un uccello di legno.
Ah, Cuba, se ti dicessi,
io che ti conosco tanto,
ah, Cuba, se ti dicessi,
che è di sangue la tua palma,
che è di sangue la tua palma,
e che il tuo mare è di pianto!
Sotto il tuo sorriso leggero,
io che ti conosco tanto,
guardo il sangue e il pianto,
sotto il tuo sorriso leggero.
Sangue e pianto
sotto il tuo sorriso leggero;
sangue e pianto
sotto il tuo sorriso leggero.
Sangue e pianto.
L’uomo che vive nei campi
è come in una fossa infilato,
morto senza esser nato,
l’uomo che vive nei campi.
E l’uomo della città,
ah, Cuba, è un accattone:
va affamato e senza denaro,
chiedendo la carità,
anche se si mette il sombrero
e balla in società.
(Lo dico nel mio son intero,
perché è la pura verità.)
Oggi yankee, ieri spagnola,
sì, signore,
la terra che ci toccò,
sempre il povero la trovò
oggi yankee, ieri spagnola,
come no!
Che sola la terra sola
che ci toccò!
La mano che non si affloscia
devi stringerla immediatamente;
la mano che non si affloscia,
cinese, nera, bianca o rossa,
cinese, nera, bianca o rossa,
con la nostra mano tesa.
Un marinaio americano,
bene,
nel ristorante del porto
un marinaio americano,
mi voleva dare la mano
mi voleva dare la mano,
ma lì rimase morto,
bene,
ma lì rimase morto,
bene,
ma lì rimase morto
il marinaio americano
che nel ristorante del porto mi voleva dare la mano, bene!
Andavo per un sentiero
Andavo per un sentiero,
quando con la Morte parlai.
Amico! – gridò la Morte –
ma non le risposi,
ma non le risposi;
più non guardai la Morte,
ma non le risposi.
Portavo un giglio bianco,
quando con la Morte parlai.
Mi chiese il giglio la Morte,
ma non le risposi,
ma non le risposi;
più non guardai la Morte,
ma non le risposi.
Ah, Morte,
se ancora una volta ti vedrò,
mi metterò a conversare con te come un amico:
il mio giglio, sul tuo petto, come un amico:
il mio bacio, sulla tua mano, come un amico;
io fermo e sorridente
come un amico.
da El soldado Miguel Paz y el sargento José Inés (Il soldato Miguel Paz e il sergente José Inés, 1952)
VI
Con l’avvenire bloccato,
mezzo morto di fame e tedio,
mi sembrò buon rimedio
quello di fare il soldato.
Mai in verità mi è piaciuta
nel mio paese la caserma,
perché il soldato è là dentro
strumento cieco e muto
di un generalotto rude
che al ricco e non al povero è fedele.
XV
– Preparati – ordinò dopo
un capitano con voce laida –
a marciare verso la Corea
ed entrare al più presto nel fuoco.
È la guerra come il gioco,
e dopo che alla guerra vai,
nel gioco vincerai
se la buona sorte ti assiste…
Com’è il tuo nome, dicesti?
E io gli risposi: – Paz.
XXVI
– Anche se calato mi vedo
in un vestito da soldato
– dico con pausa – e armato
dalla testa ai piedi,
non per questo, amico,
sono timoroso della mia sorte.
Il sangue, quando è versato
senza discrezione, è cattivo concime;
sostengo, dopo, e aggiungo
che cerco la vita e non la morte.
da Elegías (Elegie, 1948-1958)
Elegia a Emmett Tíll
Il corpo mutilato di Elmett Tíll, 14 anni, di Chicago,
Illinois, fu estratto dal fiume Tallabatchle,
nei pressi di Greenwood, il 31 agosto,
tre giorni dopo essere stato rapito dalla casa di suo zio,
da un gruppo di bianchi armati di fucili…
«The Crisis», New York, ottobre 1955
In Nordamerica,
la Rosa dei Venti
ha il petalo sud rosso di sangue.
Il Mississipi scorre
oh vecchio fiume fratello dei neri!,
con le vene aperte nell’acqua,
il Mississipi quando scorre.
Sospira il suo ampio petto
e nella sua chitarra barbara,
il Mississipi quando scorre
piange con dure lacrime.
Il Mississipi scorre
e guarda il Mississipi quando scorre
alberi silenziosi
da dove pendono grida già mature,
il Mississipi quando scorre,
e guarda il Mississipi quando scorre
croci di fuoco minaccioso,
il Mississipi quando scorre,
e uomini di paura e grida
il Mississipi quando scorre,
e il notturno falò
alla cui luce cannibale
danzano gli uomini bianchi,
e il notturno falò
con un eterno nero che arde,
un nero che si afferra
avvolto nel fumo il ventre sciolto,
gli intestini umidi,
il perseguitato sesso,
là nel Sud alcolico,
là nel Sud di vergogna e frusta,
il Mississipi quando scorre.
Adesso oh Mississipi,
oh vecchio fiume fratello dei neri!,
ora un bimbo fragile,
piccolo fiore delle tue rive,
non radice ancora dei tuoi alberi,
non tronco dei tuoi boschi,
non pietra del tuo letto,
non caimano delle tue acque:
un bimbo appena,
un bimbo morto, assassinato e solo,
nero.
Un bimbo con la sua trottola,
con i suoi amici, con il suo rione,
con la sua camicia della domenica,
con il suo biglietto per il cinema,
con il suo banco e la sua lavagna,
con la sua boccetta d’inchiostro,
con il suo guanto da baseball,
con il suo programma di pugilato,
con il suo ritratto di Lincoln,
con la sua bandiera nordamericana,
nero.
Un bimbo nero assassinato e solo,
che una rosa d’amore
fece sbocciare al passo d’una bimba bianca.
Oh vecchio Mississipi,
oh re, oh fiume dal profondo mantello!,
trattieni qui la tua processione di spume,
la tua azzurra carrozza dalla trazione oceanica:
guarda questo corpo lieve,
angelo adolescente che portava
non ben chiuse ancora
le cicatrici sulle spalle
dove aveva le ali;
guarda questo volto dal profilo assente,
disfatto da pietra e pietra,
da piombo e pietra,
da insulto e pietra;
guarda questo aperto petto,
il sangue antico già dal duro coagulo.
Vieni e nella notte illuminata
da una luna di catastrofe,
la lenta notte dei neri
con i loro fosforescenti sotterranei,
vieni e nella notte illuminata,
dimmi tu, Mississipi,
se potrai contemplare con occhi d’acqua cieca
e braccia da titano indifferente,
questo lutto, questo crimine,
questo piccolissimo morto invendicato,
questo cadavere enorme e puro:
vieni e nella notte illuminata,
tu, carico di pugni e di uccelli,
di sogni e metalli,
vieni e nella notte illuminata,
oh vecchio fiume fratello dei neri,
vieni e nella notte illuminata,
vieni e nella notte illuminata,
dimmi tu, Mississipi…