a cura di Lorenzo Pataro
da Mattoni per l’altare del fuoco (Jaca Book, 2002)
fotografia di Dino Ignani
Nel suono delle bestie
molti dei pregano
e scuotono a un’usta di passera tra i pini
i lembi incandescenti dell’infanzia
se sulla soglia
al rovinio tra i rami delle merle
hai visto il figlio discendere sul padre
e aprirsi alle parole
per dirgli la parola che non salva; e forse
hai visto il chiurlo non discendere diversamente.
*
Dove abita il bambino abita Dio.
Il suo deambulare fa la storia; non dirglielo,
semplici parole s’impennano contro di lui
e le sue labbra mettono alcioni in bonaccia
nella selva secca della terrestre salina
che schiocca sotto il suo grave peso di bimbo.
Acqua e sale, patria, nutrice marina
che punti sulla foglia il grano di sale e
l’aspide lingua dell’uria,
inclina nell’aria la casa
e fa che il suo occhio d’infante rapace
divelga di noi l’orto che approntammo per lui,
discenda a svellere i morti sopraccigli,
che sia glabra la nostra morte.
*
Tu che non sei di questo mondo e sei nella polvere
e siedi alla parte breve del tavolo
estrai dalla tasca il bosco e dal bosco te stesso,
coi tuoi pensieri stesi ad asciugare sul greto
del fiume essiccato come cordicelle annodate
da un bambino estivo, che raso sull’erba
scocchi festuche marine alla terra e
al passo dei tordi protetti la prua di pigne
del promontorio nel ceduo del mare aperto,
dove al medesimo intento le cieche aringhe
migrano e sprofondano.
Semplicemente, in una radura nel bosco,
cucita alla fronda più alta la civetta inchioda
alle loro piume come a peccati falangi d’uccelli,
schiere di alati perduti, cori di rimprovero e di pianto
mentre tu avvicinandoti alla nave spaziale
giunta infine a riprenderti fai il gesto
di estrarre anche questa cosa dalla tasca.
*
Allora, noi andammo di là.
Tra gli uccelli appesi
per i lungoviali a mare.
C’erano vaste zone di vento, poi niente;
poi altro vento e poi ancora niente;
noi di là, in fila, coi nostri abiti di sempre
ci chiedevamo e non ricordavamo niente,
se non il sorbo se non il rovo
se non la bacca della canina
nella neve che si forma
sulle città di porto
da vasi infranti a seimila metri di quota.
*
Io guardo questi alberi un’ultima volta,
come sempre si guardano le cose, per ultime volte,
al di fuori dei campi coltivati e
su un suolo che per tutti era santo:
dove le bestie tenevano assemblee di fidanzamenti
all’apparire e al ritrarsi degli animali ibernanti,
lo sparviero mutato in colombo la volpe in donna,
e le anime dei defunti che emergevano
in cerca di uova sessuate sulla fragile costa di un fiume:
le gazze, allora, i ciuffi di piantaggine, le
cavallette tra le erbe, d’ogni regione astronomica
i voli interrotti degli uccelli di passo e le meteore
nel mucchio di sementi del letto domestico e
accanto agli altari del suolo e delle messi,
dove sempre ti sei rivolto ad antenati indistinti
e hai creduto di sentire le anime dei morti
fluttuare confusamente nell’angolo oscuro della casa.
*
«Presto sarà l’inverno
e il male che ci donammo
da lungo tempo non colto
maturerà appieno nell’ospizio del gelo.
Forse la funebre uccella siberiana,
colei nel cui utero già si dibatte e ride
l’orrendo e sacro implume,
dalla vetta di una mistica cipressa
chiamando a raccolta i suoi
contro il marmo del cielo
lascerà cadere dal becco anche te
e in questa mezza luce,
in questa sospensione o suono
come di revocata incursione aerea
darà inizio alla neve».
Quando così ti parlo e gli altri
in un denso fumo si rialzano
si guardano attorno e lasciano la sala,
sull’orlo dei tuoi occhi compare
un glutine di torpida inconsistenza spirituale;
perdi conoscenza.
Presto sarà l’inverno e
tu ancora non capisci che la caduta è eterna.