Flaminia Colella | Guerra, festa

cura e introduzione di Lorenzo Pataro


In questi versi di Flaminia Colella la grazia è sicuramente il motivo pervasivo; la si percepisce nel ritmo, nella posa per niente artificiosa delle immagini. Tutto è ammantato come da una lava -d’oro- che si insinua sottile nel reale, la levità domina anche i contrasti, c’è un nucleo tensivo verso il bene, verso ciò che fa alzare ai cervi la testa, fa volare il falco, fa chiudere i cancelli a riposare; ogni elemento è colto nella sua essenza, nella sua attesa ardente di fuoco vivo, un fuoco leggero che consegna al lettore, anche tramite le braci e ciò che resta, uno splendore antico e sacro, uno splendore che quasi chiede il permesso di entrare, è una luce che entra pianissimo nelle ferite e cura anche l’ortica nella gola, immagine, anche questa, che l’autrice consegna al lettore con profonda naturalezza. Sono versi di luce e di candore, anche il sangue arriva dolcemente, tutto chiede salvezza, tutto chiede che le cose avvengano così come devono avvenire, con gesti non di sottomissione, ma di ascolto, un invito all’accettazione anche di ciò che divora. Anche le contraddizioni, i paradossi, i contrasti diventano quindi accettabili attraverso il canto, perché la parola si fa portavoce e manifesto della salvezza, una parola che non viene dalla lingua dei mortali, una parola-mistero, un vento che attraverso tutto il corpo e si fa fiato, partitura, tessitura della voce, testimonianza ineludibile, della quale non si può non udire il richiamo, se la poesia è il potente talismano.


Io sono la vita
se come fame aperta giro per strada
e tutto è corrispondenza piena col mio cuore

Allora ti parlo dell’oro diffusamente

                                              fiume che cola
accende le maglie del tempo
dal cielo arriva nel sole delle tre
dalla finestra che apre sulla pineta
da questa grande casa bianca

Non credevo sarebbe stato così
le ore che baciano gli orologi impazziti
il filo che mi lega a lui stretto nella mano
tutti innamorati i miei futuri figli

che non so se avrò mai
ma ora da qui guarda con me il mare che culla
i pensieri ritornati al porto
le onde non sanno finire
e non tramonta

                        il bene che ci bacia, ci incorona

*

Appare il sole
sulla mia terra, di mattina
i raggi chiedono il permesso alle radure
ai cervi che alzano la testa in all’erta

come ospiti estranei

Arriva come sangue
dal profondo della bocca di fuoco
e dalle acque

Noi non abitiamo il tempo
c’è tutto, morte nascita e resurrezione
in un giorno

Noi non parliamo la lingua dei mortali
non c’è ritmo, cadenza che alterni
il respiro tagliato e rotto

ci siamo tutti figli, mariti
mogli che chiedono pane e salvezza

e ancora mani che cercano
la frutta, con lentezza,
e si attardano su stoffe
preziose per l’inverno

La cima, dove vola il falco
la bestia sacra che intona il canto
ci saluta nelle pause del caffè

e te, ci guardi con occhi
incantati dalla croce
ci condanni o ci assolvi?

ancora una volta, il vento
è quello che scappa appena dal tuo fiato

Mia madre non ha pensieri ormai
mio padre ascolta il ticchettio dell’orologio

tu ci guardi e ci ridici
in questa imperfezione?

ci vedi o maledici
l’ortica che abita la gola?

Acqua di giorno

Non siamo schiavi di un tempo predefinito.
Il pianista lo dice ad alta voce
seguendo un’assoluta partitura

Davanti la barcaccia mi ripete
non offendere il fuoco che divora

Accanto ci passano persone
siamo seduti al tavolo da un’ora

Vattene al mare tu da sola
oggi che il tempo è distillato d’oro.

Guardo come guardano i pazzi qui in città,
le narici aperte di fiori e testa sgombra.

Il tempo è distillato di tempesta.

Non potevamo immaginarlo così prima
il gesto di un capo reclinato
a bere pioggia che investe la collina.

C’è acqua. E sole. Non nemici.
C’è tutta la giornata splendente
degli amici. I cancelli che vengono chiusi
a riposare.

Io e te ci siamo come vento.

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