Emanuele Franceschetti | Testimoni

Da Testimoni (Aragno, 2022)
a cura di Lorenzo Pataro


La memoria coltiva la sua lingua.
Dal fondo di riversa un sillabario,
cose insepolte che ancora significano
dietro la soglia incerta del visibile.
C’è un nome che non puoi dimenticare:
i vivi e i morti restano indivisi
nell’equivoco del tempo lineare.
La vita si contamina, persiste.

*

È una donna. Parla a voce alta,
forse seduta di fronte al dispositivo
che le rimanda una figura intera e conosciuta.
Parla con voce del sud e in certi passaggi quasi grida,
non sai se per gioco per una rabbia improvvisa
nostalgia o terrore.
Oltre la parete sottile forse si chiede se la ascolti,
se esisti, quali frammenti ricomponi.
Cosa vedi, cosa hai perduto.
Anche tu figura, immagine sonora,
testimone.

*

La prima cosa sono le campane. Un suono di nessuno,
che non ferma la pioggia, che non salva
i superstiti. Sciancati, sentinelle, trafficanti,
ovunque vittime in disuso.
Angst,
in una lingua più efficace, per dire
che nel suono resiste una paura
che sai e non sai.
O forse sei solo come gli altri nell’opera del mondo,
nel nulla imprecisato, in una forma
tentata, un tu qualsiasi che si sporge.

*

Ci sono cose che non posso dirti.
Potrei darti un nome,
indicarti cose in uno spazio che è di tutti,
destinarti parole non diverse da altre che già conosci.
Eppure il nome in cui ti tengo è un segno
che affonda e brucia.
Un culmine, un segreto.
Non posso dirti mia unica figura intatta
mia croce, mia lingua nascosta.
Non posso dirti il corpo
che mi resiste ancora,
corpo che non è spirito
ma terra scossa, carne spalancata.

*

Pensi ai tuoi simili, al primo uomo.
E poi la quiete composta delle cose, la storia.
Ma niente accade, niente acconsente.
Non la voragine, non la voce dei superstiti.
La mente non distingue, la mente è sigillata
al suo fondo oscuro (dunkler grund)
al suo presente.
Piove da cento giorni.
Immagini una torsione. La lingua disarticola la forma,
la parola è tesa, divisa.


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