uninstall #1 | La sincerità nell’arte

a cura di Antonio Francesco Perozzi


Il titolo è ironico. Oppure, se preferite, utopistico, così com’era ironico e utopistico insieme, confondendo tutti, Rino Gaetano, quando in Cerco, ad esempio, in una lista di cose che non si trovano, oltre alla «rivoluzione» e al «punk», metteva appunto «la sincerità nell’arte». Ma disattendo subito le aspettative di alcuni lettori: non ho intenzione di trovarla io. Questo perché Uninstall, che oggi inauguriamo, sarà semmai una rubrica di demistificazioni, di analisi e smontaggi di edifici di senso che stanno a cavallo tra testualità e mondo.

Prima cosa che vorrei provare a disinstallare, quindi, è la sincerità – o autenticità – della scrittura. Quando si disinstalla un programma non lo si elimina tout court. La disinstallazione è piuttosto un atto di rimozione intelligente, che passa attraverso il riconoscimento di un oggetto, la sua estrapolazione, l’osservazione di un contesto che si relaziona a quell’oggetto e, una volta rimosso, che si relaziona alla sua traccia, alla sua assenza. È una ri-contestualizzazione (di un presente che diventa assente), dunque, più che una cancellazione in senso assoluto. E questo mi sembra un impianto interessante per riflettere, più di tutto, proprio sull’autenticità, un paradigma che compare spesso nelle discussioni sulla letteratura, e soprattutto sulla poesia, ma che compare appunto, secondo me, in forma disinstallata, come traccia.

Quando si parla di autenticità in poesia si parla infatti di questo: l’aderenza di una scrittura al vissuto, alla visione, all’esperienza del soggetto che la produce. In greco, del resto, αὐτός equivale a “egli stesso” e ἔντος a “dentro”: qualcosa che ha a che fare con l’autodominio, con l’autorità su di sé.  Non nego il fascino di questa prospettiva: la capacità della lingua di aderire a una verità, di riuscire a comunicarla; è un sogno di potenza che pertiene all’idea della parola, come si sa, da tempi remoti, e che ha attraversato i secoli nonostante sia sempre stata accompagnata, per contro, dalla percezione della propria insufficienza rispetto alla realtà (Dante entro i primi sei versi del Paradiso: «vidi cose che ridire / né sa né può chi di là sù discende»). Ma questa insufficienza in re della lingua fa parte del gioco; e anzi possiamo dire, in una battuta, che la poesia può intendersi come stato di tensione tra potenza e impotenza del linguaggio, ciò che fa scaturire, con Leopardi, la meraviglia-terrore del vago.

Anche per questo non voglio affrontare la questione in termini essenzialistici, bensì storici, contestualizzati. Con questa domanda: quale antropologia supporta l’autenticità della scrittura? Un punto mi pare si trovi nella concezione rituale dell’arte. Una dimensione, cioè, in cui l’arte detiene il compito di rappresentare (affermare, confermare) un’interpretazione della vita. È il rito, appunto: una ripetizione simbolica che funziona nella sua presupposta sincerità, nel suo assottigliare il più possibile la distanza tra realtà e linguaggio. Se la letteratura nasce come mito, poi, si capisce come sia originariamente saldata alla religione (che si propone come verità, cioè appunto come distanza minima o nulla tra realtà e linguaggio) e alla sua liturgia (un sistema di simboli che afferma ritualmente tale prossimità o sovrapposizione).

Questa ritualità, la sua capacità di confermare un’antropologia, però, a un certo punto della storia occidentale, s’incrina. Siamo nell’Ottocento, siamo nel momento in cui Baudelaire fa cadere la corona d’alloro nel fango, siamo, soprattutto, nel momento in cui la rivoluzione industriale ricondiziona lo stare al mondo dell’uomo, ne modifica la percezione del tempo (non più la circolarità delle stagioni, bensì l’alternanza quotidiana di lavoro e riposo), inserisce qualcosa tra la sua azione e il significato della sua azione, qualcosa che si esemplifica nel denaro, un segno in grado di introdurre una distanza ulteriore tra l’oggetto e l’uomo, e cioè, ancora, tra realtà e linguaggio. Non è un caso, lo sappiamo, che l’Ottocento sia il secolo delle avanguardie: sono la risposta alla compromissione della capacità rituale dell’arte, non più in grado di rappresentare con il paradigma della verità una realtà allentata da nuove larve. Così in poesia le strutture si sfaldano, nasce il verso libero, inizia un percorso di messa in crisi della ritmica (l’eredità più visibile delle liturgie), si rompe il legame diretto tra artista e opera d’arte e tra i due si impone in misura sempre maggiore una dimensione teorica, l’intellettualizzazione. Mi sembra molto efficace l’espressione che ha usato Giovannetti, «implementazione»[1], per indicare questa frapposizione: l’espansione teorica necessaria a motivare un’arte che non risponde più a una liturgia comprensibile collettivamente e immediatamente.

Sto iper-semplificando, è chiaro. Il punto che voglio evidenziare – per aprire una discussione – è come questa frapposizione complichi la possibilità di accedere al movimento di auto-posizione e auto-determinazione che è contenuto nell’idea di autenticità. E come la storia della letteratura occidentale degli ultimi centosettant’anni tenda a dividersi tra una linea che punta a far crescere, sofisticare o esplodere questa implementazione (ed è la linea delle avanguardie e delle sperimentazioni), e un’altra (quella lirica) che tende invece a scavalcarla, mirando a riottenere quella autenticità ora disinstallata.

Ma c’è altro. Giocando a spingerci oltre, se da una parte osserviamo l’opposizione tra un mondo in cui l’arte assolve una funzione rituale e un altro fortemente secolarizzato, cui appartiene di conseguenza un’arte che fatica a fondarsi su un codice generalmente condiviso, dall’altra potremmo chiederci se proprio il meccanismo dell’implementazione non sia il rito confermante l’antropologia che domina oggi i sistemi umani, quella capitalistica, essendo essa, come detto, costruita su una dinamica di mediazioni astraenti (del denaro, del lavoro salariato, della finanza eccetera). Come però il rito religioso, confermando un’antropologia, la rende “visibile”, rivelata, così le implementazioni mostrano l’antropologia capitalistica delle mediazioni – una rivelazione che risulta intollerabile per la classe oppressa e rischiosa per la classe dominante. Ecco quindi che, con Debord, vediamo l’arte (il rito) trasformarsi in spettacolo, cioè nel livello postmoderno dell’arte, in cui si costruisce un’immediatezza che è però illusoria, rende implicite le mediazioni (le citazioni, il kitsch, l’autocoscienza straniante) di cui in realtà si sostanzia. Ed ecco, anche e infine, la necessità di dibattere l’autenticità: questo stesso discorso è proprio l’implementazione della scrittura che si vuole autentica, e che invece incappa a sua volta in un meccanismo di giustificazione, fatica, contravvenendo alle proprie premesse, a esprimersi immediatamente. Molta carne al fuoco, me ne rendo conto – ma magari ci sarà modo di tornare sui punti specifici. Per ora tutto il discorso è orientato ad avvicinare un problema che chi si occupa di poesia oggi non può non porsi, e che riguarda la distanza dalla propria scrittura, il ruolo delle mediazioni, se e come si possa applicare una richiesta di autenticità. Più che le scelte individuali – io sento più vicina una disposizione che parte da una messa in crisi del codice – mi interessa la presenza (l’invadenza) della questione. Che riguarda in prima battuta il significato – storico, estetico – dell’implementazione; poi quale antropologia ritualizzano le scritture che attraversiamo.


[1] Paolo Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila. Un percorso di lettura, Carocci editore, Roma, 2017, p. 85.


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