Forse non sai, Irene
che si prega girati di schiena
e per sopravvivere bisogna amarsi
come i preti amano le ostie.
Dico forse, perché ti guardo
mentre studi i cromosomi
e invano cerchi qualcosa
che giustifichi il perdono.
Forse non sai, Irene
che nella migliore delle ipotesi
il nome di Dio lo impari a memoria
digitando interurbane dai telefoni a gettone.
Tu mi fai tornare in mente
lo spessore delle lettere imbucate,
gli indirizzi scritti a margine,
il sapore dei francobolli.
Ed è così che ti vorrei leccare
e spedirti chissà dove
ignorando confini e carte coloniali;
vorrei leccarti fino ai mitocondri
per capire se quel modo che hai
di mettere ordine tra le cose
lo hai ereditato da tua madre
oppure dai supermercati.
Lasciami qualcosa di tuo, Irene
perché verrà il regno
quando saremo tutti uguali
e allora non potrò distinguerti
come nel corpo di Cristo
non si distinguono le ossa.
*
Ripensavo all’idea di tenere dei platani
in giardino – metti che viene qualcosa
giù dal cielo e non ce ne accorgiamo.
Gira la terra e mi giro dall’altra parte
solo per restare fermo e con un giorno
di ritardo chiederti se c’è ancora speranza
per giungere a domani.
Io per sempre, tu per quelle rose
che hai piantato, e il quesito si sposta
dal tempo allo spazio che occupiamo.
Però mia madre ha uno strano modo
di fare figli, che non mi fa sentire
il salto da un destino all’altro.
Ecco perché i platani, pensavo. Come se
bastasse un punto per capire dove siamo.
E invece lo sanno gli alberi che ci vuole
almeno un’ombra, perché la luce esiste
solo quando incontra i rami.
*
Prima che il sole
batta le calendule
Dio si è fatto malva
tra i fossi
e le gramigne,
ma c’è rimasto poco
di quella genesi
e quel poco luccica
di vetri rotti.
Così, girato dalla stessa
parte dei ragni,
santifica la tela
ed è un barlume
di mosche la speranza
che ad ogni giorno
ci sia preda.