a cura di Giovanna Frene
da L’isola dei topi (Einaudi, 2021)
Metamorfosi
Una delle prime cose che farò
quando tutt’e due saremo alberi
sarà dimenticarti
ma senza whisky e senza psicoanalisi
No, saprò dimenticarti
donando le foglie più casuali,
ribelli, irregolari
alle schiere di passeri sui rami
e – vedrai – saprò dimenticarti
come ho già dimenticato
gli immani soffi atlantici
le diastoli e le sistoli del mare
che si tende o si apre
di sei ore in sei ore
così che ogni giorno quattro volte
avanza e si ritira
Io e te con le facce come
cortecce di rughe,
buchi da sembrare tane
e radici del buio più profonde
io e te saremo entrambi bravi
a dirci come siamo stati
portatori nel complesso sani
d’abbandoni e resistenze
E così, rimanendo tali e quali,
fruste di salici, ali
potremo all’infinito ricordarci
Vecchi giochi
Dalle cose, ho divorziato
Le compro, mi cadono, ne rompo
l’involucro e via
nel cassonetto
oppure le sposto e le trasloco
di senso e di ruolo
come un vecchio gioco,
così mi sento l’uomo
più adatto a conquistare
l’assoluto non essere che sono
Ma come sanno vendicarsi, loro!
Un inciampo improvviso del tono
le scioglie nel più roco
sprofondo della voce,
pretende che le cose
conversino al mio posto
dall’angolo di mondo più remoto
Nel vento
Certe giornate così chiare
non è difficile annusare
nel vento l’Adriatico
col suo fondo selvatico
d’erba e fango mescolati alle alghe
Il Tirreno più di rado
giù dal Cimone incanalato
per le valli lunghe e strette
il cui profumo aspro
porta il pino, le resine, il metallo
assieme all’odore del cinghiale
al rimbombo buio del suo passo
passaggio implacabile di blu
la riga in lontananza del mare
fra scogli e viti magre,
una foresta di canne
e le orme di mandrie brade
come dipinte sul crinale
quando la luce più morbida accoglie
vene di notte incipiente, di viole
Io resto qui
fermo al mio distributore
a respirare salsedine
in tutta una polvere di pioppi
e di ombre campagnole,
a scavare anche oggi le mie tane
Queste implacabili memorie
Questi giorni
Le giornate ti avvistano negli angoli
più innocui
e ti presentano conti esagerati,
sintonie mancanti
Le giornate sono gorghi
capaci d’ingoiarti
e dopo non lo prendi più, non lo raccogli
il tempo di scavare
radici, buche, tane
nel terreno segreto delle cose
Trame d’attese improbabili, storie
senza coscienza e senza
che torni una vera
vita di natura,
delle volte
Abbey Road
Se è questo il mio giorno fatale
o un giorno abbastanza importante
da ricordarne alba e colore
tutt’attorno delle piante
secco nelle arie
prima quasi assenti
e poi pungenti
che dobbiamo alzarci i baveri
ricoprire d’unguenti
Se è questo il giorno più importante
per occhi, nasi e sentimenti
è meglio che sia un giorno
di circostanze povere
fra salici sbilenchi
una palude di pozzanghere
questo muretto circondato di sterpaglie
e l’asfalto tutto crepe
dove riconciliarci con la sete
dei fratelli persi chissà dove
A santificare
un giorno uguale
in pegno posso offrire
le mie scarpe ormai cinquantenarie
le stesse di George Harrison
sulla copertina di Abbey Road
Ottobre del ‘69
e me quattordicenne senza cielo
di reticoli di tane prigioniero
un autunno di topi nel pensiero