cura e introduzione di Lorenzo Pataro
da Bevendo il tè con i morti (Interlinea, 2015)
In questi versi “lievi” di Chandra Livia Candiani (e per tutta la raccolta) la morte – e i morti – sono consegnati ad una dimensione quasi intrauterina, in un regressus ad uterum che nega loro ogni connotazione negativa e, per tale ragione, dà loro un nuovo volto, originalissimo rispetto ad ogni tradizione letteraria. Un volto che presuppone innanzitutto una levità consapevole, percepibile sia nel ritmo che nella scelta di immagini portatrici di un piccolissimo peso specifico, piccole briciole che quasi riducono tutto ad un unico fragile respiro – l’ultimo (eterno) è una goccia di pioggia che è già caduta -; per questo anche la fine di una stagione è colta non nella sua drammaticità (come per ogni passaggio o metamorfosi), ma nel suo resistente candore, anche fallire è dolce e la morte è quasi una danza, un evento che il morto ha quasi paura di rievocare con la sua presenza/assenza, un evento che non cade, una luce rovesciata che quasi chiede il permesso di brillare, che è lì, in equilibrio, sul precipizio e resta conficcata, come monito e come altrove onnipresente. La dimensione dell’altrove è ottenuta quindi attraverso gesti di inchino, gesti pacati, con la voce di “bambina saggia” che contraddistingue la poetessa. Il canto è di chi vive nel mezzo, un essere di frontiera sciamanico che tutto sa, che fa vibrare il suo tamburo come un bisbiglio appena percettibile, ma bastevole a rimanere nella mente di chi ascolta. Il narrare dei morti non è quindi terribile, non genera paura di quello riserverà l’oltre, ma è interdetto, è sottile, una virgola nel sonno dei vivi, la cruna di un ago, in cui si infila ogni limpido verso, ogni storia da non obliare. In questa enciclopedia dell’irreale ogni morto ha quindi la sua dignità ed è colto, nell’altrove misterioso in cui è collocato (prossimo e, spesso, terreno), attraverso una precisa connotazione che spesso coincide con quella di quando era vivo, un atto a rinsaldare un legame indissolubile tra chi resta e chi vola via lasciando i frammenti della sua eredità. Chi resta vorrebbe infatti attraversare, anche e soprattutto attraverso il canto, quella dimensione che ha tutte le forme conosciute e nessuna delle forme conosciute, se ogni goccia dice addio all’altra goccia. La morte, in questi versi, è dunque momento qualunque, è un piccolo bagliore che si insinua nella crepa e la risana, un tepore a cui abbandonarsi, una febbre di fine estate, consegnandosi a ciò che appassisce con il peso consapevole di una piuma.
Verso sera
i morti siedono sui fili della luce
come gocce di pioggia
che è già caduta.
*
Non alla terra
né al volo delle foglie
somigliano i morti
in autunno
ma al dolce
fallire dell’estate.
*
Io morta
danzo sulla tua fronte
come le dita della colomba
in equilibrio sul bordo
della fontana non cado
no non cado dentro il tuo pensiero.
*
Bevendo il tè con i morti
c’è sempre uno
che sottilmente tace
non un silenzio esangue
ma un narrare interdetto
che non vuole
nell’ascolto pace.
*
Morire è adesso
un momento qualunque,
questo momento.
Un palombaro
con la testa sul cuscino
mi fai la cronaca
da sott’acqua:
«Difficile.
Adesso.
Abbandonarsi.»
Vorrei essere l’acqua
in cui tu nuoti.