Bernardo Pacini – Fly mode

a cura di Giovanna Frene

Hovering


Era […] la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.
(H. Arendt)

I

Abissato in questo sogno meridiano
immobile / nella tratta dei venti
io vedo tutto.

Come ora: una serqua di frisoni s’impenna tra le lapidi.
Lussano crisantemi, snidano pomone
i seni grandiosi drizzati coi mignoli.

Animals as leaders, penso: i musi enormi che sniffano
la cenere dei vivi.
Scuotono il seminterrato
la famiglia divampa
in roghi differenti.

All’esterno si vede bene
l’orso blu al finestrone:
guarda dentro
la bazza
a millimetri dal vetro.

Per quanto ancora non ci creda
sono io, sono solo un
grosso orso blu
che guarda dentro.

III

Tutto questo cinema più largo che lungo
mi guarda con tutti gli occhi che può.

Non ha lasciato sedie per gli altri
tiene le scarpe sul posto davanti
è arrivato giusto in tempo / per vedere me.

Non aspetta che si abbassino le luci
perché fuori sono le tre del pomeriggio
e si è già fatto buio su tutta la terra.

Ascensorista

I

Ascensorista, dunque. Figura quotidiana misofonica
s’immola
s’inlatebra al mattino, si inscatola, si tumula
conosce a menadito le ditate
lui le ha date, specialmente sui bottoni ai piani alti
lui che elabora brillanti strategie di benvenuto
che aruspica negli angoli sesso e classe dei clienti
si specola nel vetro immacolato, verifica che i denti
siano sempre più aderenti alle gengive, che le ogive
delle arcate della bocca s’addrizzino col tempo.

«Prego, dica pure, a quale piano / deve andare
che mi adopero a mostrarmi quanto poco
salutare sia passare finalmente all’inazione.

Primo piano: bluegrass, country e garage rock
al secondo: heavy metal, stoner metal, post-hardcore
terzo piano: avanguardia, cantautori e chamber jazz.»

. . .

(“Ma che splendido incantesimo, che scena apocalittica sarebbe / se una nuvola ultratossica
scendesse sul negozio trasformando in men che dica
tutto il pubblico in perfette imitazioni delle lapidi, con magari
su stampate date, nomi e – rigorosi, in alfabeto – sottogeneri e correnti…”)

Underwater drone

Avrei potuto essere quel drone di New Orleans
attraversare indenne la Hot Tub of Despair…

Sul fondo di mari silenziosi
fissare malinconico
a ritmo di crociera la sterminata vasca di gas e salamoia
miasmatico acquitrino di metano / nel braccio messicano dell’oceano
filmando carcami e filacci di pesci impazziti
stupende Palmanova di crostacei supine sugli scogli.

Oui! Grande mer de délires douée
… dicono ci sia Uno che ha promesso di
vincere la morte
fossi il drone di New Orleans ciò non mi importerebbe
potendo io per hobby organizzare un tour
nel fetido vascone di Santa Niña Blanca
guardando da lontano l’equorea agonia
delle cozze in ipossia
la strozza degli anellidi farcita di salsedine.

Oh, farmi un’idea precisa della morte
del tipo di stupore che si prova a starne fuori
pinneggiando controvoglia nell’attesa
di tornare in superficie a fare il morto

con le braccia larghe, a croce.

Shutdown


[…]
Non aspetta che si abbassino le luci
perché fuori sono le tre del pomeriggio
e si è già fatto buio su tutta la terra

Senescenza – potatura


Anni dopo, potei finalmente prendermi cura di mio nonno, ormai una catasta d’ossa con gli occhi e la bocca. Passava gran parte del suo tempo su una sedia di legno, con un cuscino sotto il culo inesistente, gli occhi cisposi, le gambe incrociate e in bocca un lapis scorciato che credeva una sigaretta. Lo stringeva tra le dita, strizzava le labbra rapprese e aspirava convinto. Nella sua testa, era una sigaretta senza fine. Starnutiva molto, molte volte e molto forte e quando si riprendeva dallo spasmo involontario, si guardava attorno smarrito. Talvolta spezzava il silenzio profondo della casa, con la naturalezza di chi riprende un discorso appena interrotto, biasciando: «piteccio viceversa carraia montorsoli suor agnese». Dopo la morte della nonna, rimase sempre più tempo nel letto e smise del tutto di parlare. Quando entravo nella sua stanza, lo vedevo chiuso nel letto con le sponde, accartocciato sul fianco spalle alla porta, secco e sfinito come una ramaglia dentro una voliera. Mi trovavo a stirargli le braccia e le gambe per farlo scendere, sicuramente sentiva un grande dolore. Quando poi lo rimettevo a letto, prima di chiudere la porta stavo a guardarlo per un po’ attraverso l’oscurità della stanza, si richiudeva, barbicando gli arti intorno al bulbo. Dormiva mormorando nel sonno. Al mattino, sobbalzava mentre gli aprivo di nuovo le ossa, mi guardava, non capiva chi fossi, chi era quello che lo stava strappando dalla bara, il suo cuore ritmava un bolero, aveva un discorso d’amore stranito negli occhi. Morendo mi metteva a dimora.


Questi testi sono tratti da Fly Mode (Amos, 2020)

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